lunedì 14 gennaio 2013

La donna giusta, nel posto giusto, al momento giusto

A dispetto del titolo del post, raramente mi sono sentita la donna giusta, nel posto giusto, non parliamo poi del momento.
Sono come quelli sempre in anticipo sui tempi che rimangono in stazione una vita ad aspettare un treno che magari è stato cancellato oppure sono in ritardo e arrivo con il cuore in gola per la corsa, quando il treno è partito da trenta secondi, in tempo per vedere il sedere dell'ultima carrozza. Avete presente?
C'è stata una volta, però, in cui mi sono sentita proprio in tempo e nel posto giusto e la metafora dei treni non è venuta a caso.
Ero a Milano su un treno appena partito che mi riportava a casa, a Torino. Treno regionale, stracolmo di corpi accalcati anche se è domenica e per fortuna è novembre. Mi metto nell'unico posto possibile e cioè nello spazio tra un vagone e l'altro, vicino alle porte ( e ai bagni!). Come me, anche altri si sono piazzati lì. Mi tengo la valigetta del lavoro e lo zaino vicini per non togliere spazio vitale agli altri e intanto osservo le persone che mi stanno intorno e fantastico sulle loro vite (l'ho già detto, non sono impicciona, è "studio umano").
A Vercelli il treno si ferma, le porte si aprono e una piccola processione di persone scende.
Davanti alla porta vuota, mentre guardo fuori e cerco di respirare un po' di malsana aria ferroviaria, si presenta un signore anziano, basso di statura, con il cappotto grigio e liso troppo lungo che quasi tocca per terra. Sotto il cappotto fanno capolino i colletti di una serie di maglie assortite, probabilmente tutte quelle che possiede, e ai piedi ha un paio di scarpe troppo grandi che lo fanno sembrare un clown.
Ha un cappello consumato in testa, da cui esce un cespuglio di capelli bianchi arruffati, e la barba lunga e incolta.
Il viso è pieno di rughe ed è conciato dal freddo e dal sole, gli occhi rigorosamente puntati in basso.
Ha due borse di plastica stracolme di non si sa cosa e non ci vuole molto a capire che non ha una casa.
Il capotreno passa sulla banchina dietro di lui, mentre cerca di salire e fa finta di non vederlo. No, non pensate male. Una  volta tanto, è un'indifferenza solidale. Fa finta di non vederlo per permettergli di salire e chiude un occhio sul fatto che il biglietto probabilmente non ce l'ha.
L'ometto fa il primo gradino con fatica e, quando sta per fare il secondo, (complici i sacchetti troppo gonfi, il cappotto troppo lungo e le scarpe pure) perde l'equilibrio, ma una mano lo afferra per un braccio e lo aiuta a salire, la mia mano.
Quando le mie dita si stringono intorno al suo braccio magro temo di averlo mancato, perché mi pare di aver afferrato il braccio di un pupazzo di stoffa. Invece, le ossa ci sono sotto tutti quegli abiti, ossa da uccellino.
Lo aiuto a salire e sembra non avere peso, come uno spirito.
Una volta su, lui si assesta e mi sussurra un grazie appena percettibile.
Non vi racconto tutto questo per spiegarvi quanto io sia buona, prendere quella mano è stato un riflesso incondizionato (o un riflesso di amore incondizionato, se vi pare).
Questo è il momento in cui mi sono sentita davvero la donna giusta nel posto giusto, come se il mio lavoro, il treno pieno e le Ferrovie dello Stato avessero cospirato per farmi essere lì nel momento in cui quell'uomo ha avuto bisogno della mia mano. E forse è questo il senso dell'essere la donna giusta o l'uomo giusto: non mancare al nostro appuntamento con l'altro e quindi con la vita.

Per chi ha voglia di un finale un po' più allegro ... (E' tutto vero)
L' anziano con le sue borse gonfie arriva davanti al vagone pieno di gente seduta e commenta con la sua vocetta: "Ah, bene. Possiamo fare una partita a carte!"



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